Oggi abbiamo l'onore di "ospitare" virtualmente sul nostro blog il dott. Matteo Mazzon, consulente del lavoro dal 2005, milanese. Autore di numerosi articoli e libri in materia di diritto del lavoro, ci ha onorato di un suo intervento. Un escursus tecnico e oggettivo di come siamo giunti all'attuale situazione.
Dopo il post di Alessandro Nardone, ecco a voi un nuovo contributo dei nostri lettori!
Accordo del 21 novembre 2012 : produttività e salari dei lavoratori
Il governo e i sindacati delle
imprese e dei lavoratori hanno firmato in data 21 novembre
2012 l’accordo sulla produttività. La
CGIL è stato l’unico sindacato a non firmarlo, definendolo «deludente».
Il solito sindacato oltranzista oppure ci sono dei motivi fondati che lo hanno
portato alla decisione di non firmare? L’accordo del 21 novembre
favorisce la produttività senza penalizzare i salari dei lavoratori?
Qui ci limitiamo
a raccontare i fatti poi sarà il lettore a giudicare.
Il Protocollo del 1993
Faccio un passo indietro siamo
nel 1993. All’inizio degli anni ‘90, la necessità di contrastare la
crisi economica ed occupazionale – formalizzata dall’UE in “parametri” da
rispettare per poter partecipare all’unione monetaria, secondo quanto stabilito
nel Trattato do Maastricht del 1992 – indusse i governi e le parti sociali di
molti Paesi europei a recuperare il metodo concertativo per definire
consensualmente le politiche economico-sociali a livello nazionale. Viene abolita la scala mobile e con il protocollo del 1993 nel quale le Parti Sociali (firmatarie CGIL,
CISL, UIL, Confindustria) e il Governo per prima volta hanno predisposto un
quadro di principi e di regole per rendere coerenti i processi contrattuali con
le politiche economiche e dei redditi per consentire una gestione congiunta e
dinamica delle relazioni di lavoro e per prevenire il conflitto.
Fu
deciso che il contratto collettivo dovesse avere durata quadriennale per la
parte normativa e biennale per la parte retributiva. Ogni due anni quindi
dovevano essere ricontrattati i salari e gli stipendi al fine di adeguare le
retribuzione al crescente costo dalle vita. A salvaguardia del potere di
acquisto dei salari venne istituita la c.d. indennità di vacanza contrattuale:
dopo un periodo di 3 mesi senza che fosse intervenuto il rinnovo del CCNL
scaduto ai lavoratori dipendenti, ai
quali si applicava il contratto medesimo non ancora rinnovato, doveva essere
corrisposto, a partire dal mese
successivo ovvero dalla data di presentazione delle piattaforme ove successiva,
un elemento provvisorio della retribuzione, detto appunto indennità di vacanza
contrattuale (I.V.C.) pari al 30% del tasso di inflazione programmato,
applicato ai minimi retributivi
contrattuali vigenti, inclusa la ex indennità di contingenza.
Dopo
6 mesi di vacanza contrattuale (I.V.C.), detto importo veniva elevato pari al
50% dell'inflazione programmata. Dalla
decorrenza dell'accordo di rinnovo del contratto l'indennità di vacanza
contrattuale sarebbe cessata di essere
erogata.
Quindi,
un buon strumento di tutela del potere di acquisto dei
salari in attesa di contrattazioni per il rinnovo che potevano essere, in
taluni casi, difficili e lunghe.
Ma come veniva calcolato
l’ammontare degli aumenti salariali?
Per determinare il
valore dell’aumento salariale, si teneva conto del tasso di inflazione
programmato in sede di DPEF con l’obbiettivo mirato “della salvaguardia
del potere d’acquisto delle retribuzioni, delle tendenze generali
dell’economia e del mercato del lavoro, del raffronto competitivo e degli
andamenti specifici del settore”.
In sede di
rinnovo dei minimi contrattuali l’inflazione programmata veniva comparata con
quella effettiva intervenuta nel precedente biennio.
Quindi,
la funzione che è sempre stata attribuita dalle stesse Parti Sociali al CCNL
nazionale ovvero quella di stabilire le retribuzioni in modo da salvaguardare il potere d’acquisto delle retribuzioni fissando dei minimi
retributivi.
Il
concetto è stato chiaro per anni : il
CCNL nazionale stabiliva i minimi retributivi con l’obbiettivo di
tutelare il potere di acquisto delle retribuzioni, mentre il CCNL territoriale
o aziendale (c.d. di secondo livello) doveva prevedere l’erogazione di ulteriori
somme, oltre il minimo salariale, di carattere premiale, a fronte di una
maggiore produttività del lavoro.
Inoltre, vorrei sottolineare che l’esigenza di produttività era già
stata contemplata dal Protocollo del 1993 nel quale si è stabilito che “Le erogazioni del livello di contrattazione
aziendale sono strettamente correlate ai
risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti,
avendo come obiettivo incrementi di
produttività, di qualità e altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano”.
E
infatti nel 1997 è stata introdotta la decontribuzione sui premi di risultato (art.
2 D.L. n. 67/1997, convertito
nella legge 135/1997). Prima automatica poi resa a sperimentale da erogarsi in presenza di
specifici requisiti, solo a richiesta dell’azienda e nei limiti della copertura
finanziaria all’uopo stanziata consistente in
un assoggettamento dei premi al solo contributo di solidarietà del 10%.
Oltre alla decontribuzione a partire dalla
metà dell’anno 2008 é possibile applicare l’imposta sostitutiva del 10% all’imponibile di alcune voci salariali
(premi, straordinari, maggiorazioni varie) ricorrendo alcuni elementi quali ad
esempio un’aumentata produttività.
Quindi,
già a partire dal 1993 e fin’ora a livello aziendale, e anche territoriale, si
sono raggiunti accordi volti ad incrementare la produttività attribuendo ai
dipendenti somme premiali sottoposte imposta sostitutiva al 10% ed
eventualmente oggetto di decontribuzione, però aggiuntive rispetto ai minimi
salariali stabiliti nel CCNL nazionali.
L’Accordo Interconfederale del
2009
Successivamente
con l’Accordo quadro del 22 gennaio 2009 (detto separato perché non firmato da
CGIL) si è operata una e vera propria revisione degli assetti contrattuali.
La
durata dei contratti viene riportata a 3 anni, permangono i due livelli di
contrattazione, nazionale di categoria ed aziendale/territoriale, con la
previsione da parte di quello nazionale delle specifiche competenze di quelli
territoriali.
Per
ciò che concerne la determinazione degli aumenti salariali, è stato abbandonato
il "tasso di inflazione programmata" come indicatore di crescita dei
prezzi al consumo, per un nuovo indice previsionale, stabilito da un soggetto
terzo ed estraneo alle parti sociali, costruito sulla base dell'IPCA (indice
prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l'Italia).
L’inflazione
programmata (TIP) veniva adottata per
contenere la spirale prezzi inflazione, concertata e poi fissata
unilateralmente dal Governo, rappresentava anche un indice “politico”.
L’dice previsionale IPCA è invece fissato da una
parte terza autorevole (ISAE) su incarico delle parti sociali, è depurato dagli
effetti dell’inflazione derivante dai beni energetici importati, rappresenta un
indice puramente tecnico.
Viene
confermato il ruolo della contrattazione di secondo livello di determinare
erogazioni collegate alla produttività del lavoro.
Un
accordo osteggiato dalla CGIL la
quale ha ritenuto meno conveniente per i lavoratori, in particolare del settore
pubblico, il nuovo sistema di adeguamento delle retribuzioni. Per la CGIL era evidente come continuasse la politica del
governo finalizzata alla divisione del mondo del lavoro e contro il lavoro pubblico e che l’accordo determinasse
solo una forte
e certa riduzione della
retribuzione.
Di parere contrario gli altri
sindacati firmatari, come ad esempio la CISL, che lo hanno sempre ritenuto un buon Accordo.
Lasciando ad altri la valutazione e comparazione di
convenienza tra i due criteri mi limito ad osservare che l’istituto dell’I.V.C. viene
abbandonato. Nessun adeguamento
automatico delle retribuzioni in caso di vacanza contrattuale (salvo specifici
accordi tra le parti vedi ad es. A.F.A.C.
settore artigiano). Di fatto gli arretrati a copertura del periodo di vacanza
contrattuale sono stati concordati in sede di contrattazione nazionale ed
erogati per lo più sotto forma di somme una
tantum.
Da segnalare infine l’introduzione dell’Elemento di garanzia retributiva a favore dei
lavoratori dipendenti di aziende prive di contrattazione di secondo livello (e
che non percepiscono altri trattamenti economici individuali o collettivi oltre
a quanto spettante per contratto collettivo nazionale di categoria) nella
misura ed alle condizioni concordate nei medesimi contratti collettivi. Non una
buona pensata a parere di chi scrive : un aggravio di costo inutile per le
piccole imprese non legato in alcun modo ad aumento della competitività.
Il recente Accordo sulla produttività
Dunque
perché stipulare un nuovo accordo sulla produttività se tutto il nostro diritto
del lavoro è permeato di norme legale e contrattuali volte a favorirla?
Tra l’altro
l’Accordo del 21 novembre è fumoso e generico, di difficile interpretazione. Sicuramente
ce ne vorranno altri per dare attuazione alla volontà delle Parti firmatarie (Confindustria,
CISL e UIL).
In esso viene
superato definitivamente con il Protocollo del 1993 il sistema di
indicizzazione dei salari.
Il CCNL nazionale
“avendo
l'obiettivo mirato di tutelare il potere d'acquisto delle retribuzioni, deve rendere
la dinamica degli effetti economici, definita entro i limiti fissati dai principi
vigenti, coerente con le tendenze generali dell’economia, del mercato del
lavoro, del raffronto competitivo internazionale e gli andamenti specifici del
settore”.
Tuttavia, continuando
si legge “i contratti collettivi
nazionali di lavoro possono definire che una quota degli aumenti economici
derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi
retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività definiti
dalla contrattazione di secondo livello, così da beneficiare anche di congrue e
strutturali misure di detassazione e decontribuzione per il salario di
produttività definito dallo stesso livello di contrattazione. Tale quota
resterà parte integrante dei tratta
menti economici comuni per tutti i
lavoratori rientranti nel settore di applicazione dei contratti nazionali
laddove non vi fosse o venisse meno la contrattazione di secondo livello”.
Non si
leggono riferimenti espliciti a IPCA né tantomeno la conferma dell’elemento
economico di garanzia. Ammesso che si utilizzerà ancora IPCA come parametro di
riferimento per il calcolo degli aumenti salariali ci si deve comunque porre
una domanda : cosa vuol dire che “una quota degli aumenti economici derivanti
dai rinnovi contrattuali” può essere “destinata
alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di
produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello” ?
Vuol dire che una parte degli aumenti retributivi che fin’ora erano
sostanzialmente posti a salvaguardia del potere di acquisto dei lavoratori e
contenuti nel CCNL nazionale potranno essere stabiliti ed erogati in funzione
degli incrementi di produttività e
redditività. E se non si verifica l’ incremento di produttività e
redditività? Niente quota di aumento? Così parrebbe.
Ricordate cosa ho scritto sopra riguardo alle distinte funzioni che
sono state attribuite storicamente alla contrattazione collettiva?
Ebbene
con l’Accordo di novembre il concetto viene modificato: il CCNL nazionale
potrebbe non garantirà più da solo i salari dei lavoratori – e quindi il potere
di acquisto delle retribuzioni - ma potrà essere necessario un ulteriore
accordo di secondo livello (non che preveda l’erogazione di somme oltre il
minimo salariale come accadeva in passato) che preveda l’erogazione di quote degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali
in funzione della maggiore produttività.
Esemplificando
operativamente lo scenario potrebbe essere il seguente: se in precedenza
l’aumento era di 200 la cui
corresponsione era certa, ora l’aumento
potrebbe essere 200 di cui 150 (certo) e 50 di incerta corresponsione in
funzione della produttività.
E’
evidente che se non si erogano le somme oltre il minimo stabilito dal CCNL
nazionale, con questo accordo ben che
vada si può sperare di salvaguardare il potere di acquisto del lavoratore.
Nell’Accordo
poi si ravvisa quella che pare essere una contraddizione : in caso di mancanza
della contrattazione collettiva di secondo livello tale quota resterà parte integrante dei trattamenti economici comuni
ovvero nei minimi salariali.
Ciò ci induce a pensare che in alcuni casi il sindacato dei lavoratori
possa essere tentato di non contrattare pur di assicurare l’intero importo dell’aumento
salariale.
Tutto ciò sarà ancor più probabile se il Governo non amplierà e
renderà stabili – come richiesto dalle Parti sociali - gli attuali incentivi :
decontribuzione e tassazione agevolata.
Concludendo ….
Considerando che i salari reali (Fonte Istat) sono rimasti
fermi negli ultimi vent'anni, con conseguente riduzione della capacità di
risparmio degli italiani che si è progressivamente ridotta e che nel complesso dal
2008 il reddito disponibile delle famiglie è aumentato del 2,1% in valori
correnti, ma il potere d'acquisto (cioè il reddito in termini reali) è sceso di
circa il 5%, questo Accordo potrebbe contribuire ad aggravare ancor di più la
situazione.
Per
rilanciare la competitività delle imprese italiane, invece, sarebbe opportuno
che si intervenisse sul costo del lavoro, uno dei mali del mondo del lavoro
italiano, ed in particolare sugli elevati oneri sociali ovvero operando sul
cuneo fiscale IRAP, come hanno suggerito più volte i Consulenti del Lavoro.
Matteo Mazzon (seguitelo su Twitter: @MatMaz72)
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